Facciamo un esperimento. Fate partire un film in streaming. Il primo che capita. Indossate un paio di cuffie, saltate i primi dieci minuti e ascoltate: riuscite a sentire il fruscio delle foglie degli alberi che vedete nell’inquadratura? E i passi della gente che cammina per strada? Fate attenzione e riuscirete a sentire distintamente anche il crepitio del tabacco al primo tiro. Oppure il ghiaccio che tintinna in un bicchiere di bourbon. Se poi conoscete il rumore che fanno le rane che piovono dal cielo o una porta squarciata a colpi d’ascia non c’è bisogno che vi spieghi nulla. Tuttavia, anche voi, provate a far passare il palmo della mano destra lungo il braccio sinistro. Sfiorate la pelle. Piano. Non pensavate facesse rumore, vero? E invece sì. Tutto fa rumore.
Se riuscite a sentire tutto questo nella scena di un film, non è perché avete un udito eccezionale. È solo per merito suo: Jack Donovan Foley. Classe 1891. È stato lui a creare i primi rumori nelle pellicole di Hollywood. Con lui sono nati i “rumoristi”, i foley artist di oggi. Sono loro gli artigiani dei rumori nei film. Ma questa è un’altra storia. E Wikipedia vi dirà tutto, se glielo chiedete. Questo posto è solo un esperimento personale. Perché lo faccio? Vi basti sapere che ho passato una buona dozzina di anni a scrivere lanci d’agenzia. Miliardi di battute sparate online a ripetizione. A forza di premere il grilletto, però, si diventa sordi. Così ho deciso di fermarmi, chiudere gli occhi e tornare ad ascoltare.
Foley è il mio ritorno alle origini. “La lezione di giornalismo numero uno, del resto, la devo alla mia prima insegnante di educazione fisica. Alle scuole elementari. In una piccola aula di fianco alla palestra dei più grandi. A noi, alti tre barattoli di fagioli in pila, bastava meno spazio. Correvamo sul posto. Facevamo alcuni esercizi e poi ci stendevamo a terra, senza tappetini. Contatto diretto col pavimento. Freddo. Ruvido. Dall’odore inconfondibile di scarpe da ginnastica e linoleum. Supini. Occhi chiusi. Lavoravamo sulla respirazione. La voce dell’insegnante rimbombava nell’aula. Imponeva il silenzio assoluto e chiedeva di concentrare l’attenzione sui rumori che ci circondavano. Dovevamo ascoltare a fondo e dire cosa sentivamo. Una cosa sola. L’unica regola era di non fermarsi al primo rumore, ma di provare a catturare quel che gli altri non sentivano. Rumori interstiziali. Non protagonisti. Nel buio delle palpebre andavamo alla ricerca del di più che spesso ignori. È la prima cosa che ho imparato in una palestra. Ascoltare a fondo“*.
Come Philip Winter, il protagonista di Lisbon Story, un film di Wim Wenders del 1994 dedicato a Federico Fellini. Philip è un tecnico del suono chiamato a Lisbona dal suo amico registra Fritz per registrare l’audio del film che sta girando. Per tutto il tempo se ne va in giro con cuffie e microfono ad ascoltare e registrare i suoni, le voci e il respiro della città. No… qui niente fado, tranquilli. Voglio solo fare come Philip. Andarmene in giro per questo paese e ascoltare. Prima di tutto. Per tutti questi anni mi è sembrato di essere come Fritz, che se ne sta nella sua Bmw Isetta parcheggiata tra i quartieri nuovi di Lisbona aspettando il momento giusto per recuperare le sue cineprese nascoste per la città, con l’intento di catturarne la cruda realtà.
Non voglio starmene «chiuso in quella macchina, come un matto nel suo eremo», come dice Philip al suo amico Fritz. Così ho deciso di accendere un microfono e ripartire da dove tutto è iniziato. Alla fine Winter ha ragione quando dice a Fritz: «Muovi gli occhi attorno e fidati di loro. Non ce l’hai mica sulla schiena. E continua a fidarti della tua vecchia manovella. È ancora capace di immagini in movimento. Perché sprecare la tua vita in superflue immagini spazzatura, quando a metterci il cuore puoi farne di indispensabili?». Quindi silenzio, e azione!
*Il brano è contenuto nel libro “L’Italia che resta. La frontiera interna e il coraggio di essere felici”. Ediciclo 2021.